Storia dell’Art Brut
JEAN DUBUFFET
Jean Dubuffet nasce a Le Havre nel 1901. Dopo aver frequentato per due anni l’Accademia locale, nel 1918 si trasferisce a Parigi per studiare all’Académie Julian e diventare pittore. È una decisione sofferta e più volte ritrattata. Ma diventa definitiva a partire dal 1942, dopo un periodo trascorso a Buenos Aires e alcuni anni di lavoro nell’azienda di famiglia. Dubuffet è attratto dalla produzione dei popoli primitivi, dai graffiti tracciati sui muri, dalle immagini spontanee e naturali dei bambini e dei malati di mente. Si tratta di un vasto repertorio, per il quale, a partire dal 1945, conia l’espressione “Art Brut” e che in seguito analizzerà meglio nei suoi scritti e nei “Cahiers de l’Art Brut”.
Nel 1944 tiene la prima personale alla galleria René Drouin di Parigi. Nello stesso periodo compie un viaggio in Algeria, da cui ricava numerose idee e spunti pittorici. Nel periodo bellico Dubuffet si interessa a quella che chiama “peinture de la vie moderne”. Si dedica, quindi, alle Hautes Pâtes (1945-1946) e ai Portraits (1946-1949), che, per la pregnanza materica, possono ben rientrare in ambito informale. Nel 1946 Jean Dubuffet pubblica il Prospectus aux amateurs de tout genre, dove chiarisce il suo pensiero. Nel 1947 allestisce il Foyer de l’Art Brut, mostra con opere di bambini e alienati mentali nella Galerie René Drouin di Parigi. L’anno successivo fonda la Compagnie de l’Art Brut con André Breton, Jean Paulhan e Michel Tapié. Espone per la prima volta in America, nella galleria newyorkese di Pierre Matisse. Tra il 1949 e il 1960 si dedica a vari cicli di opere: Paysages Grotesque (1949-50), Corps de Dames e Sols et Terrains (1950-52), Assemblages e Texturologies (1953-1959). I Phenomènes (1958-1962) e le Matériologies (1959-1960) si aprono all’impiego di materiali diversissimi: collage di opere precedenti, giornali, elementi vegetali e animali, tra cui persino ali di farfalla. Nel 1960 si dedica anche a un lavoro musicale sperimentale insieme a Asger Jorn. Negli stessi anni tiene numerose retrospettive in Europa e in America: Städtisches Museum di Leverkusen nel 1957, Kunsthaus di Zurigo, Stedelijk van Abbemuseum di Eindhoven e Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1960, Musée des Arts Décoratifs di Parigi nel 1961, Museum of Modern Art di New York nel 1962. Nel 1966 è la volta della Tate Gallery di Londra e del Guggenheim di New York. Jean Dubuffet, pittore, fondò nel 1947 il foyer de l’Art Brut a Lausanne e in seguito la fondazione dell’Art Brut. Fa una scelta arguta e trova il nocciolo duro, quello che chiamerà “Art Brut”, al quale altre sorgenti creative si aggiungono, come i medium spiritici, l’arte carceraria, le creazioni autodidatte ispirate. Con la sola forza di una parola “Art Brut” egli fa nascere una categoria nuova, una sfida nell’ambiente artistico occidentale. E’ stato il primo a coniare il termine “’Art Brut” anche se prima di lui, medici, psichiatri, criminologi e poeti si erano interessati e avevano iniziato a collezionare delle opere di malati mentali e categorie di persone emarginate. Nell’estate del 1945 Dubuffet si mette alla ricerca di una creazione del tutto anonima, senza denominazione e senza vera definizione. Lo chiamerà a luglio di quel anno “Art Brut”. Raccoglie opere di tutti tipi, provenienti da personaggi oscuri, con impulsi spontanei, animati da fantasie, deliri e soprattutto estranei all’arte catalogata. Sono dipinti, disegni, statuette, oggetti vari, unici, che richiamano le origini dell’uomo e che sono l’invenzione spontanea e individuale. Impulsi forti, umori propri, nessuno scopo di lucro, nessun riguardo per le convenzioni, ecco alcune delle caratteristiche di questi artisti. L’iniziativa di Dubuffet si rivela inizialmente provocatrice e difficile da sostenere. L’artista dell’Art Brut lo definisce come un autodidatta, marginale che elabora una nuova tematica, iconografia, stile e tecnica che confermano il carattere unico e originale dell’opera. Ognuno lavora in solitudine e nell’anonimato. Il destinatario dell’opera è assente dal pensiero dell’artista e l’aspirazione al riconoscimento sociale non esiste. L’artista ignora che lavora nel campo dell’arte, la sua produzione si sviluppa fuori da ogni quadro istituzionale. Ognuno ha un’estetica propria e non fa parte di una corrente artistica.
L’Art Brut è un fenomeno ideologico. Marca il rifiuto della discriminazione che contraddistingue la mentalità matura: quella del reale e dell’irreale, oppure in altre parole dal principio di realtà e di piacere. Il disegno procede alla stesso tempo da un gioco intellettuale e sensuale. Si può optare per l’immaginario contro il reale, cioè per l’autismo, oppure per la rassegnazione realista cioè per la depressione. Gli artisti dell’Art Brut non si sono lasciati derubare della loro infanzia e si sono aggrappati ad un universo dove realtà e desiderio non sono vissuti come contraddittori. Così l’artista dell’Art Brut non concepisce la pittura come l’altra faccia di un mondo in disordine, ma piuttosto come una stregoneria che lo aiuta a riconciliarsi con il mondo. Rifà il mondo come lo desidera. Non si tratta di estetica ma di un ultimo mezzo di sopravvivenza. Dubuffet è riuscito a formulare la specificità di questa creatività marginale e clandestina. L’Art Brut è il primo segno di frattura all’interno del campo culturale occidentale. Dubuffet è un artista dal percorso atipico. E’ una persona creativa totale, artista e collezionista dall’infanzia. E’ nato nel 1901 da una famiglia di commercianti in vini. Solo nel 1942 ha ceduto al demone dell’arte avendo i mezzi finanziari per dipingere liberamente. Si tiene alla larga dall’accademismo e dallo snobismo dell’avanguardia parigina. Vuole fare ripartire la pittura da basi totalmente nuove e sarà riconosciuto come artista internazionale e imprenditore. Ha sempre mantenuto intatta l’indipendenza che ha caratterizzato la sua condotta e il suo pensiero.
CESARE LOMBROSO
La moderna idea del genio, rappresentante delle più straordinarie capacità umane, della creatività, dell’originalità, si sviluppò essenzialmente nel corso dell’ottocento. E’ stato osservato che nessuno più di Cesare Lombroso ha contribuito a formare la concezione popolare del genio artistico. Senza dubbio egli fu l’esponente ottocentesco più noto della teoria patologica del genio. “L’eccessiva sensibilità, squisita e alle volte pervertita”, l’esagerazione di “due stati alterni, di eretismo e di atonia, di estro e di esaurimento” caratterizzano fortemente il genio e si avvicina alla follia. Il genio, dice, non è sempre un’alienazione ma è uno squilibrio eccessivo dell’attività cerebrale e della sensibilità che può avvicinarlo alla follia.
La follia è stato il motore della storia di ieri e di oggi. Se il genio fosse sempre un’alienazione come si spiegherebbe che Napoleone, bipolare, non desse il più lieve segno di alienazione. Negli artisti il genio crea non perché lo voglia ma perché deve creare, “non sono io che penso, sono le mie idee che pensano per me” diceva Lamartine. Creare era per lui un impulso irrefrenabile che lo spinse verso l’atto creativo. Ma il carattere più particolare della follia dei “geniali” può alternare tra estro ed esaurimento anche nelle persone più sane. L’uomo di genio è spesso bizzarro nella sua condotta, spesso disordinato, tanti lo descrivevano come uno affetto da un’orribile malattia. Eccessi intellettuali, passioni, abuso dei sensi, delle ambizioni o dell’amore sono caratteristiche comune negli artisti, come tra l’altro l’abuso di alcol e droghe. Ma malgrado tutto ciò il genio è compagno dell’intelligenza. Cesare Lombroso inventò il concetto di genio creatore come variante dell’alienazione mentale. Scrisse Genio e Follia, l’Uomo e il Genio. Verso il 1890 Cesare Lombroso intraprese una collezione di opere di alienati. Disegni, dipinti, mobili, sculture, che furono raccolti nel museo antropologico di Torino. Sono l’emergenza nella follia, le capacità inventive non evidenziate prima, che spingeranno il neurologo inglese John Hughling Jackson a tentare di dimostrare, non il carattere patologico del genio, bensì il contrario, che la follia può rivelarsi creatrice in certi casi. L’alienazione non fa il genio, ma lo disturba. Il genio non è il prodotto di uno spirito malato. In alcuni casi eccezionali dove tutti due gli elementi coesistono, il genio rappresenta un resto di salute da considerare come un elemento conservatore in lotta contro i demoni della malattia.
Nella fine del XIX secolo dove va avanti l’avventura impressionista, mentre i marginali e solitari, Van Gogh e Gauguin si rifuggono, il primo nella follia mistica, il secondo nell’esotismo di Pont Aven poi di Tahiti, il riconoscimento dell’Art Brut prosegue il suo cammino in Francia e in Germania. E’ una fase puramente clinica dove la produzione dei malati è considerata semplice materiale diagnostico che serve a precisare le categorie delle malattie mentali. In Francia sono gli scritti dei malati mentali che attirano l’attenzione. Solo nel 1872 nel suo libro “studio medico-legale sulla follia”, Ambroise Auguste Tardieu analizza il caso di due disegnatori e fornisce le spiegazioni date dagli artisti stessi. Presto Paul Max Simon, psichiatra francese, si interessa alle allucinazioni e al sogno. Nel libro di Simon, “l’immaginazione nella follia” adotta un punto di vista strettamente descrittivo e scientifico ma ha il merito di trattare la produzione dei malati con rispetto e oggettività, facendo la differenza tra quelli che manifestano attitudini artistiche prima del ricovero e il caso più curioso, della creazione spontanea. Solo nel 1907, anno delle “Demoiselles d’Avignon”, appare il libro decisivo “l’art chez les fous” del critico Marcel Réja.
La prima esposizione pubblica europea dell’arte psicotica si è svolta nel 1900. Réja studiò tanti casi ma nessuno fu proprio rilevante.
Nei paesi di lingua tedesca invece sono gli artisti ad essere stati i primi ad interessarsi a l’Art Brut. Max Ernst, ancora studente, scoprì una collezione manicomiale che lo affascinava. Kandinsky e Franz Marc esposero dei dipinti di malati mentali accanto ai loro dipinti. In Svizzera è Klee che fa da perno tra il mondo degli artisti folli e quello dell’arte tradizionale. Verso il 1912, Paul Klee incontra a Berna lo psichiatra Walter Morgenthaler della clinica di Waldau, che si interessa ad un caso eccezionale: Adolf Wolfli. Questo medico osservò per 11 anni questo caso e pubblicherà un libro su di lui “l’artista alienato” il primo caso di malato mentale considerato come artista e che diventerà per Dubuffet il classico dell’Art Brut per eccellenza.
ADOLF WOLFLI
Autodidatta, proveniente da un ambiente modesto, Adolf Wolfli non ha niente dell’artista tradizionale diventato pazzo. Orfano, maltrattato, internato all’età di trentuno anni per aggressione, sono tanti gli episodi che lo resero fragile. Credeva di avere una missione divina. Aveva delle allucinazioni e sentiva delle voci. Soffriva di crisi epilettiche ed aveva una grande memoria visiva. Componeva dei disegni con la matita nera poi a colori e raccontava leggende e un’autobiografia epica. Tentò di fuggire ma lo ripresero. In alcuni anni, questo sostenitore accanito dell’evasione interiore, è diventato l’Artista della clinica, lavorava anche su commissione e creò una opera vasta. E’ l’artista per eccellenza dell’Art Brut. Aveva uno stile elementare di grande potenza, un alfabeto schematico che sviluppava in infinite variazioni. Tutto è simbolico nella sua opera e non realistico. Dipingeva giorno e notte per non udire le voci che lo assillavano. Tante sue opere sono al Museo dell’Art Brut a Lausanne.
Il libro di Morgenthaler provoca l’entusiasmo di tanti ma venne presto dimenticato con l’arrivo di un opera aspettata a lungo che diventerà la bibbia degli ultimi espressionisti prima dell’avanguardia europea e del surrealismo. Era il libro dello psichiatra Hans Prinzhorn “Attività plastica dei malati mentali”.
HANS PRINZHORN
Hans Prinzhorn, storico dell’arte, medico psichiatra e psicoterapeuta era, nella Berlino del 1922, la persona più qualificata per avvicinarsi ad una materia così complessa. Scrisse “l’attività plastica nei malati mentali” come detto prima. Da un pò di tempo si parlava in Germania di una collezione e del progetto di fare un museo nella Clinica psichiatrica universitaria di Heidelberg. Hanz Prinhorn, illustre professore, anticonformista e figura romantica, era riuscito nell’arco di tre anni a collezionare 5000 opere di 435 artisti diversi di tutta Europa.
Il contenuto del suo libro è più estetico che psichiatrico. E’ un contributo alla psicologia e alla psicopatologia dell’atto creatore (Gestaltung). Il suo scopo era, grazie all’analisi e al confronto delle opere più o meno sofisticate, non solo ricercare l’arte nella produzione dei malati mentali, come Morgenthaler, ma capire la sorgente dei meccanismi universali della creatività. Prinzhorn distingue sei pulsioni fondamentali per dare lo slancio vitale all’opera. Queste pulsioni erano combinate in modo diverso da un artista all’altro. Alla base, un bisogno vitale di esprimersi, una pulsione di ordine, una tendenza a riprodurre, una pulsione di gioco, una pulsione di “parure”, e un bisogno di esprimersi con i simboli. Termina il libro come lo fece Réja, paragonando l’arte dei malati mentali a quello l’arte dei bambini, l’arte primitiva e l’arte dei medium. L’arte degli artisti soffrendo di una malattia mentale, secondo la psicologia prinzhorniana (Gestalatung: l’impulso alla espressione è la fonte di ogni Gestaltung), introduce un’importante svolgimento dei valori. Certamente essa rappresenta l’espressione genuina, autonoma e ignora tutti i fattori sociali e apre la strada al metodo conoscitivo della visione dell’essere. La pubblicazione del libro di Prinzhorn suscita grande interesse nel mondo artistico. Affascinati dalle illustrazioni, Paul Klee esprime il suo entusiasmo assieme a Kirchner, Kandinsky, Jean Arp. L’unico a non dargli l’importanza che si merita è Sigmund Freud che non era affatto portato all’arte! Ma in Germania l’arrivo di Hitler al poter interrompe bruscamente il riconoscimento di genialità dei malati mentali, dei folli creatori. Prinzhorn muore, tanti artisti emigrano negli Stati Uniti. I malati vengono sterminati nei manicomi. Nel 1937, a Monaco, una grande mostra intitolata “arte degenerata” stigmatizza i geni dei manicomi esposti accanto agli artisti moderni.