Le donne nell’Art Brut
Aloïse Corbaz
Aloise è considerata come una delle maggiori figure dell’Art Brut. Nata a Lausanne, fa studi e ottiene il suo baccalaureato nel 1906. Durante la guerra torna a Lausanne ed è ospedalizzata a Cery in seguito a pensieri religiosi esaltati. Rimarrà tutta la vita internata e dopo un periodo di autismo, comincia con discrezione a dipingere su carta con mattite e gessetti. Aloïse Corbaz (Losanna, 28 giugno 1886 Gimel, 5 aprile 1964) è stata una pittrice svizzera.
È stata un’artista molto acclamata di Art Brut e inclusa nella collezione iniziale di Jean Dubuffet sull’arte psichiatrica. Benché avesse sognato di diventare cantante, trovò lavoro come insegnante e governatrice alla corte del kaiser Guglielmo II di Germania. Mentre era qui sviluppò un legame ossessivo per il Kaiser che la portò ad essere diagnosticata come schizofrenica, per cui venne rinchiusa in un ospedale psichiatrico nel 1918. Iniziò a dipingere e a scrivere poesie in segreto nel 1920 circa, ma la maggior parte del suo lavoro iniziale è stato distrutto. Il direttore dell’ospedale, Hans Steck, e il medico generico Jacqueline Porret-Forel, che descrive il lavoro di Aloise come “teatro dell’universo”, iniziarono a mostrare interesse nel 1936 e il suo lavoro venne alla fine scoperto da Dubuffet nel 1947. Egli credette anche che Aloïse fosse guarita smettendo di lottare contro la sua malattia e scegliendo di coltivarla e farne uso. Il suo lavoro erotico consiste soprattutto di belle donne con curve voluttuose e capelli fluenti frequentate da amanti in uniforme militare. Usò i colori vividi dei pastelli, delle matite e succo di fiori per riempire interi fogli. La sua compulsione a riempire ogni spazio sul foglio è un “horror vacui” molto simile a quello di Adolf Wölfli. E’ l’artista donna che più mi ha colpita nel museo a Lausanne con le sue carte dai colori sgargianti e passionali.
Le indagini condotte negli ultimi vent’anni sui meccanismi che hanno favorito la patologizzazione delle donne, mostrano come la psichiatria di inizio secolo sia stata tra i protagonisti di questa modalità discriminatoria. Le opere creative delle donne erano considerate scarabocchi non figurativi, disegni ludici a tendenza ordinata raggiungendo raramente quello che viene definito da Hans Prinzhorn “!l’affascinante stravaganza”. Alcune studiose e storiche dell’arte hanno cercato di correggere la marginalizzazione imposta alle donne. L’assenza di opere delle donne nella Collezione Prinzhorn deriva da una definizione maschile dell’arte e del mestiere di artista, ma è anche responsabilità delle stesse istituzioni psichiatriche che hanno suggellato il silenzio privando di mezzi e di possibilità espressive le pazienti, quando addirittura non ne hanno stravolto il senso per adeguarlo a canoni più sani e convenzionali. Dalle donne ci si attendeva che si limitassero all’artigianato come il ricamo, tessitura e decorazione. Erano le vie espressive permesse alle brave ragazze e un mezzo espressivo per le ricoverate che venivano indirizzate a questo genere di attività per recuperare la “normalità”. Dagli archivi esaminati durante le ricerche emerge che alcune ricoverate possedevano un grande talento. Erano creative e capaci di elaborare strategie estetiche e metodi di lavoro originali in assenza di qualunque indicazione. Prendendo spunto dalla propria condizione di segregazione, le artiste hanno tradotto su carta e stoffa il rapporto con il proprio corpo e la propria visione del mondo. I soggetti maggiormente rappresentati sono i luoghi abitati nel passato, forse un tentativo di ricreare uno spazio che nulla abbia a che vedere con il mondo spersonalizzato e confinato del manicomio. Le case trasparenti di Marte Hoge, gli interni e le case di bambole di Eugenie P., i ritratti e autoritratti di Gertrud Schwyzer.
Ferri da calza, ago e uncinetto erano gli strumenti più facilmente accessibili alle recluse, segno sottile della tendenza alla repressione, un mezzo per rieducare le donne alle “virtù femminili” dimenticate dalla malattia. Molte di loro tuttavia li adoperarono in modo trasgressivo come Agnes Emma Richter, sarta di professione. Utilizzò il tessuto grigio delle lenzuola manicomiali per cucirsi un vestito che poi ricamò con testi interamente autobiografici, indossando così la narrazione del proprio malessere. E’ un tratto diffuso nell’arte dei malati mentali usare la scrittura, i simboli e gerogrifici nei loro lavori, come a raccontare quello che non hanno potuto dipingere o ricamare per intero. Molte di queste donne hanno tentato la fuga verso altre sfere. Spiriti, angeli guardiani e simili emblemi assicuravano la protezione contro la miseria della reclusione e ricorrono nel repertorio espressivo delle artiste. Come nell’opera di Else Blankenhorn, la sola donna rientrata nella parte più importante della Collezione Prinzhorn. Volti angelici di donne calme e sorridenti popolano i suoi immaginari biglietti di banca di misura sproporzionati di Eugénie P.