Note personali
LA DEPRESSIONE NON E’ UN ALIBI, NON CONFONDERLA CON LA TRISTEZZA.
La depressione si avvinghia con mille tentacoli in modo inaspettato e con modalità sempre diversa. A volte comincia con una grande fatica mentale, una irritabilità, un aggressione verbale, un colpo di telefono che rendo sgradevole, o con delle paranoie infinite che sclerotizzano il mio cervello. Rendo spesso gli altri colpevoli della mia infelicità perché non intuisco di avere di nuovo la depressione. Gli altri a loro volta pensano che io sia di cattivo umore e che ce l’abbia con loro. Non ne esci. E’ un cerchio vizioso. Poi c’è quello che chiamo la diarrea del cervello. Il mio cervello è pesante, infangato, senza nessuna struttura, né pensiero, vuoto di senso, pieno di orrori, non riesco ad alzarmi ed a affrontare la giornata. Un pianto lungo e convulso mi trascina verso un abisso di dolore.
Mi immagino tutte le situazioni più tragiche al mondo, vivo in un mondo di tensioni e di orrore, e finalmente, nella terza fase e quasi all’improvviso, lascio la presa, capisco che tutto il malinteso è stato creato da me e che non sto bene, capisco finalmente che devo allentare la presa e considerarmi ammalata. Prima avrei voluto andare sotto terra ma ora prendo finalmente cura di me stessa e non ho più paranoie. E’ un grande sollievo. Capisci la situazione, rimetti tutto al proprio posto. Non oppongo più resistenza. E’ un pò come se mi prendessi me stessa in braccio. E’ un periodo lungo e può durare da tre giorni a tre settimane come a tre mesi nei casi gravi. Non fai niente e il tempo passa paradossalmente velocemente tanto la stanchezza e la sofferenza sono grandi. I pensieri sono lenti, la deambulazione anche essa lenta, ci si sente come un bradipo. I due terzi della giornata sono a letto e non sopporto di fare altro. Sono malata punto e basta e non temo più chi non capisce, e affare mio.
Per fare questa analisi mi ci sono voluti tanti anni. Ho la capacità di prendere distanza e di studiare la mia condizione, però purtroppo dopo avere creato tanti danni. Se gli altri non mi capiscono e se li offendo non riesco a farci niente e mi dispiace per loro. La depressione annulla la volontà, sono totalmente impotente. Bisogna aspettare il decorso e sapere che passa. Non puoi capire che dietro un sorriso ci sia un mondo di angoscia. Quasi sempre anche durante una depressione riesci a fare la tua solita vita ma con uno sforzo immane. Indosso la mia maschera finta per rincuorare gli altri. La depressione è un fantasma reale per me. Per gli altri è solo un fantasma, per me invece è terribilmente reale. In questo periodo preferisco essere totalmente sola. Non sopporto il giudizio degli altri e ancora meno i loro consigli. Voglio rispettare il mio ritmo, il mio silenzio fatto di solitudine, le mie grida di disperazione. Personalmente non ho un’idea fissa del suicidio ma nella mia testa da qualche parte so il dove e il come. Amo le tempeste, i temporali, i tuoni come se potessero scatenarsi al posto mio. Il bel tempo tipo “sole e barca a vela” raddoppiano il mio disagio. Più vado avanti con gli anni peggio è. Ho più episodi depressivi che frenetici e come se si cronicizzasse. Se non prendessi i sali di lito, stabilizzatori dell’umore, non credo di farcela. E’ una malattia e come il diabete, i medicinali devono essere presi durante tutta la vita.
Tutto questo è il mio bagaglio, è la mia vita, il prezzo da pagare per creare. La pittura è la mia ancora di salvataggio. Senza di lei il vuoto diventerebbe il nulla. La mancanza di barriere tra il reale e l’irreale, come se sogno e realtà fossero tutt’uno, caratterizza la mia pittura segnata anche lei da questa “follia”. Mi sono sempre servita del disegno per scongiurare una situazione psichica intollerabile. Sono diventata artista non per girare le spalle al mondo ma per propagare un principio di sublimazione. Si tratta di un ultimo modo di sopravvivenza. Ho creato un caleidoscopio pitturale come un bambino crea un giocatolo e non mi sono lasciata depredare della mia infanzia.
Ho però la capacità di inquadrare il mio lavoro nella vita quotidiana, di portare avanti progetti, di organizzare delle mostre, tutto ciò se l’umore del momento non è invalidante s’intende. Per integrare le fonti profonde, irrazionali con i processi logici devo fare uno sforzo enorme. I periodi di depressione sono secondo me dei momenti di sedimentazione del dolore, che risultano molto prolifici per la creatività. Ed è vero che il dolore genera creatività.
Gli stati ipomaniacali sono gli stati più idonei alla creatività. Il dolore vero e proprio non è mai stato fonte di produttività. Il mio personale modo di considerare l’atto creativo, la sostanza stessa dei miei dipinti, la maniera nella quale nascono e si sviluppano i miei temi, fanno pensare a molti artisti Brut. Ho l’impressione di essere rimasta bambina, con rabbie e dolcezze alternate, con ilarità e pianti spontanei.
Ecco alcuni cenni della mia storia.
Sono nata vicino a Lausanne in Svizzera dove risiede il Musée de l’Art Brut, il più famoso del genere nel mondo. Due volte all’anno mi reco in quella casa accogliente e piena di tesori dove mi sento a casa, a casa mia. Entrando in questo museo, bisogna per primo fare astrazione della razionalità e della volontà di capire o spiegare, e lasciare la libertà totale ai sensi per captare le onde!
Nel catalogo numero 1 dei miei dipinti ho scritto nel 2002 il seguente testo:
“Sono nata a Vevey in Svizzera nel cantone di Vaud, che porta sulla sua bandiera due parole, libertà e patria. Come sui disegni di una famosa artista dell’Art Brut, Aloise anche lei svizzera. In quel paese ho imparato a sottomettermi a Patria, Chiesa e Famiglia secondo gli schemi svizzeri, ma non alla Libertà. Era assente. L’ho scoperta in me stessa, anni più tardi, in Italia, dove vivo da 36 anni. Ho cominciato a dipingere molto tardi, con il cuore sanguinolente e, mentre prima mi sforzavo ad essere forte, ho cominciato ad avere la forza di essere debole e quindi più autentica, più vera. Ho fatto astrazione della mia razionalità e ho cominciato a portare le stigmate del desiderio, della creatività. Senza voler glorificarmi, ho cominciato a dipingere l’arte vera, l’arte che si sogna come l’amore. Non avevo nessuna nozione artistica ma una gran voglia di esprimermi. Quando dipingo la mia unica preoccupazione è essere in armonia con me stessa. Non ho frequentato scuole d’arte o accademie. Uso le mie emozioni e le mie mani. Invento le mie tecniche. La mia pittura non è un esercizio tecnico igienico ma urla al mondo intero con le budella dell’anima. E’ come cantare a squarcia gola in piena strada. L’importante non sono gli altri ma la mia armonia con l’universo. Quando dipingo “je ne raisonne pas je résonne” ovvero non ragiono ma risuono, ragionare o risuonare si pronunciano in modo uguale in francese. Se qualcuno mi dice che ho fatto dei progressi, non so proprio rallegrarmene perché non dipingo per impegnarmi ma per cercare in me il dio nascosto. Solo i bambini e i matti ne sono capaci. Non fatemi domande su i miei quadri, sono incapace di rispondervi perché non sono io che creo il quadro ma il quadro, con la forza del mio delirio creativo, nasce come voglio io. Per essere chiari è un mistero! Nella pittura non m’interessa la produzione ma il processo creativo mentale. Amo i segni, le impronte, le orme, i graffiti, tutto ciò che testimonia in modo spontaneo il passaggio dell’uomo sulla terra, perchè incarnano la leggerezza dell’infinito.”
Da piccola ho sempre scarabocchiato, disegnato, colorato, fatto découpages, mi sono sempre rifugiata nella mia solitudine con il conforto del disegno, che una volta fatto veniva cestinato. Dipingere era per me come trovare il centro caldo e confortevole di me stessa. Quando avevo circa 30 anni ho preso un pennello con colori ad olio per la prima volta, ho dipinto un gallo, molto maldestro, che ci ha messo tre mesi ad asciugare. Da allora ho rifiutato pennelli e tubetti di olio, fino al giorno in cui ho scoperto dei colori ad olio solido. Il caso non esiste. Passavo un momento molto duro della mia vita. Ho scoperto quei nuovi colori ad olio solido in stick che asciugano velocemente. Ho usato le mie mani come pennelli e non ho più smesso di dipingere da allora. Credo di aver fatto più di 2000 quadri e 1000 disegni.
SENZA LA PITTURA NON CE L’AVREI FATTA.
La vena creativa si rivela spesso tardi, nell’età in cui si rifiutano le influenze e in cui non si ha più niente da perdere. Il rimosso culturale fa un ritorno esplosivo. E’ sul modo di riflettere sulle esperienze (e non sulle proprie esperienze) che si trova il progresso dell’individuo. Ho sentito un bisogno vitale, una voglia di scaricarmi fisicamente e nervosamente contro le angosce dei rapporti umani e contro il mondo alienante nel quale viviamo. Mi sentivo una disadattata e la pittura mi ha ridato una dimensione. Lo stato di umore elevato genera e facilita di pensiero, energia, euforia. E’ nello stato di umore medio, nell’ ipomania, che la probabilità di creatività è maggiore. C’è dunque una relazione tra gli stati dell’umore e la creatività ma non c’è un legame di concausa.
Il libro di Kay Jamison Redfield, già citato prima, una psichiatra con disturbo bipolare, è un mezzo molto interessante per approfondire l’ argomento di arte e follia, in tutti i campi della cultura e dell’arte. Gli esempi di artisti, scrittori, poeti, musicisti e attori affetti da questa malattia, sono molto numerosi e c’è un evidente parallelo tra qualità dell’opera e la malattia di cui soffrono questi artisti. Da quando la legge Basaglia ha chiuso tutti i manicomi, tante famiglie si sono ritrovate in una disperazione totale di fronte a certi casi molto gravi di malattia mentale mentre le malattie più comuni e quasi non evidenti possono essere ben curate dai nuovi ritrovati farmaceutici.
Oggi i creatori dell’Art Brut sono dispersi per il mondo, non sono ricoverati in ospedali e paradossalmente sono meno visibili. Nessun collezionista riesce a scovare i loro capolavori. Sono sparsi per il mondo, non riconosciuti. La nostra epoca è caratterizzata dalla non-comunicazione. Ciascuno dipinge per sé nella solitudine dei media, di internet e altri mezzi. La collezione di Art Brut si ferma qui e non procederà per mancanza di rete.
NON SERVE SOFFRIRE OLTRE MISURA
Il fatto che migliaia di psichiatri facciano ricerche scientifiche per alleviare il dolore dell’organo cervello, come lo farebbero altri medici per altri organi, dovrebbe farci riflettere. Grandi scoperte sono state fatte nel campo della psichiatria per curare le malattie mentali ma permangono purtroppo il pregiudizio e la diffidenza. Uno che riesce a scalare una montagna con una gamba mezza rotta, sarà più applaudito di uno che arriva in cima alla vetta con le sue due gambe sane. Il dolore che prova ne vale la pena? E’ giusto che contribuisca ad aumentare l’ammirazione? Chiedetelo alla persona interessata. Nessuno può giudicare meglio di lui. Ha raggiunto la stessa vetta ma con l’unica differenza che ha sofferto. Ci dobbiamo chiedere di riflesso se è veramente necessario provare dolore per produrre arte. Il dolore acuto non ha alcuna fecondità. Tante persone rifiutano di essere curate perché condizionate dai pregiudizi dei loro parenti, amici o conoscenti. Li chiamano drogati, impasticcati.
L’idea romantica dell’artista che deve soffrire per essere “vero artista”, non è ancora tramontata. I medicinali allontanano il pericolo del suicidio e la sofferenza è meno acuta. E’ stato dimostrato che gli artisti sono più prolifici negli stati di ipomania. Una persona bipolare è incapace di produrre quando è in uno stato di depressione o di grande mania. Gli psicofarmaci alleviano i picchi di sofferenza. L’artista produce opere d’arte in primo luogo perché è un artista nel senso più vero della parola e non perché soffre. Questa era l’idea iniziale di chi ha studiato il binomio arte e follia. Prinzhorn diceva che niente, nessun tratto specifico distingue l’arte di un malato mentale da quello di un creatore “normale”. Non bisogna cercare la patologia nell’arte. Non tutti gli artisti sono matti, ma alcuni matti sono artisti. I medicinali per i disturbi mentali, rappresentano una cura da seguire per tutta la vita come le cure per il diabete. Sono la rete di protezione che permette all’equilibrista di non cadere da una parte o dall’altra della malattia bipolare. Eppure i sali di litio ed altri stabilizzatori dell’umore hanno aiutato tante persone a non morire.
I suicidi tra artisti di ogni genere sono numerosissimi e ben documentati nel libro di Kay Jamison Redfield. I medicinali non cambiano la personalità della persona, l’artista rimane artista. Sono i picchi dolorosi della malattia bipolare che sono attenuati e permettono alla persona di soffrire di meno. Il fermento artistico è molto più radicato nella persona di quanto si possa pensare e non è alleviando il dolore che si annienta l’ardore dell’artista, né il valore della sua opera. Gli psicofarmaci sono stati una delle scoperte più straordinarie dei nostri tempi ma parallelamente l’ignoranza in questa materia è stata dannosissima. E’ importantissimo sottolineare questo pregiudizio perché ne fanno le spese troppe persone, troppi artisti. Perchè beneficiare dei progressi fatti in medicina per il cuore, i polmoni, il fegato e i reni e non per l’organo più importante del corpo umano, che è il cervello? Portate una pesante responsabilità verso chi soffre di malattie mentali e soprattutto siete menti arretrate e ottuse davanti alle prove ineluttabili della medicina.
TECNICA DELLE MANI: GESTUALITA’ ED ESSENZIALITA’.
Il pennello o le mie dita devono seguire l’emozione e l’idea e non il calcolo, devono essere guidati dalla mia immaginazione. Quasi tutti i miei dipinti o disegni sono incompiuti perché lo slancio è sempre incompiuto, smette improvvisamente (per interruzione di corrente o per ritorno alla realtà, non lo so! è così e non bisogna andare oltre, sarebbe falsità!). Sono più libera nei disegni su carta che nei dipinti su supporto rigido, più il foglio è semplice e di poco valore, più il disegno risulta libero. Non voglio la costrizione di impegnami di applicarmi, inteso come sottomettermi a delle regole. Le mie primissime fonti di ispirazioni sono state la pittura rupestre, e il suprematismo di Malevich. C’è qualcosa che li unisce, l’essenzialità, la sintesi. Il tracciato ubbidisce più ad un’apprensione tattile che visiva. Il disegno non è ideato come proiezione visuale di una figura su un supporto, ma consegna invece un’apprensione manuale, traccia di una palpazione quasi cieca, che gioca il più vicino possibile con la realtà tangibile.
Questo spiega il misterioso realismo delle effigi di animali nelle pitture rupestri. Quei artisti sono riusciti a tramandare immutati la silhouette, la volumetria e l’essenzialità. Infatti il tracciato della mano, riproducendo il contorno dell’animale, procederebbe più come un calco, una carezza immaginata più della proiezione visiva. Nell’arte rupestre, usavano le mani e disegnavano la forma della mano con vaporizzazione del colore per bocca. I popoli nomadi disegnavano i loro corpi con tatuaggi. La sensorialità tattile, olfattiva, gustativa era di importanza maggiore, veniva prima ancora di imporre la visione e l’udito in quanto funzioni cognitive della distanza. I primi artisti che dipinsero su superficie liscia sono da rimandare al periodo greco romano e invece la tela fece apparizione nel rinascimento.
Dipingere con le mani quindi significa non interrompere il filo conduttore che dalla mente passa alla tela. L’istantaneità dell’opera che richiede urgenza di esecuzione è facilitata da questa tecnica. Inoltre mescolare i colori direttamente sul supporto con piccoli cerchi senza fare la miscela sulla paletta, consente un ventaglio di sfumature cromatiche ben più grande che se fossero fatti con i pennelli. Questa esigenza di dipingere con le dita viene dal lato pratico, dal gesto veloce. E’ un gesto essenziale che caratterizza la mia persona ma è anche il piacere fisico di toccare la materia. Amo le figure essenziali, spoglie, amo la purezza del segno, il ritmo della linea. Amo molto la gestualità nell’atto pittorico. La bacchetta del direttore d’orchestra è come il prolungamento del suo braccio, lo affina ma non ha un ruolo preciso, il pennello dell’artista invece serve a stendere il colore, è un vero utensile che lo separa dalla tela. Io preferisco non avere barriere e lanciarmi corpo e anima nel quadro che faccio! Inizio spesso con una matita a cera ma tante volte direttamente col colore. Ho sempre affermato che la linea ha una vita sola ed è irripetibile. Faccio tre tipi di linee: una con la matita a cera nera, una fatta di solo colore e una finale col pennello per ritagliare le figure così create. Uso il pennello come una forbice, in modo molto rudimentale e con l’acrilico. Uso il pennello esclusivamente per lo sfondo che creo dopo aver fatto il quadro, come per ritagliare il soggetto in modo iconografico. Questa tecnica ricorda i Poya svizzeri delle salite all’alpeggio. Non penso mai ad applicarmi ma a dissetarmi ed arrivare ad un risultato che corrisponda alla mia armonia del momento. Sono molto veloce nella realizzazione, finisco il quadro completamente e allora decido se tenerlo o meno. Se non corrisponde del tutto ad un idea estetica profonda del momento, lo cancello. Non firmerei mai un quadro se non fosse che chi li compra vuole la mia firma. L’importante è dipingere. Non so gestirmi dal punto di vista economico e divulgativo.
Tanti artisti hanno un promotore, una persona che gli aiuta a emergere nel mondo dell’arte, diventa una professione che è lontanissima dallo spirito artistico. Non ho mai cercato di fare mostre, ma ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno incoraggiata a fare mostre e me le hanno organizzate. Oltre a queste mie personali in capitali europee, ho partecipato ad estemporanee, ho illustrato libri, faccio parte della collezione Battolini al Camec di La Spezia. Tanti articoli di riviste e giornali sono stati pubblicati, eppure mi piace solo la solitudine del mio atelier. Il mio atelier è popolato di immagini, di fantasmi, di sogni, battaglie vinte e perse, mentre quando sono fuori in mezzo alla gente, c’è il vuoto, il freddo. L’unico vero traguardo che risento, sta nel raggiungere e non finire mai di raggiungere il mio traguardo, perché il motore dell’arte è la ricerca continua, la brama verso l’alto e rinunciare significa fermarsi.
L’ISPIRAZIONE
Il processo creativo occupa la mente giorno e notte. E’ un mosaico di percezioni, immagini, atmosfere e tonalità che si sintetizzano per poi creare l’opera. E’ una strada particolarmente ricca di emozioni ed è una strada in salita che percorre l’artista. Questo processo è fatto di consapevolezza perenne. L’artista è permeabile a ciò che lo circonda o che attraversa la sua mente. Egli deve creare “casa” in se stesso ed ammobiliarla a gusto suo, mettendo l’atmosfera che desidera, è un processo intimo come la catarsi profonda della persona spirituale.
Ho passato un momento della mia vita in cui la mia attenzione era totalmente dirottata, vivevo un’altra dimensione e non dipingevo quasi più. Varie ragioni mi avevano portato ad interrompere la mia pittura per un lungo periodo. Un artista non può non avere dei momenti vuoti, utili a ricaricare l’ispirazione. E’ la salute per la sua creatività. Ma ricominciare a dipingere significa doversi tuffare di nuovo nelle profondità, creare un’atmosfera, ammobiliare l’interno, sedercisi, sospirare, illustrare la mente con immagini spontanee collegate a pensieri fuggenti, fare un puzzle che abbia una composizione estetica forte e armoniosa. Decidere le tonalità, evitare gli automatismi e la diffusione facile del colore, creare l’equilibrio del quadro. E poi si inizia il quadro con un bagaglio pronto, senza una vera meta, senza decisione immutabile, ma leggermente sospesi nel nulla con soltanto l’idea e l’armonia in testa o piuttosto nel cuore e nell’anima. E’ un viaggio interiore, è bello come un’avventura, è emozionante come una scoperta. Ci vuole anche l’equilibrio tra lasciarsi andare e controllare le strutture e gli eccessi, è un atto delicato di grande sensibilità che al termine ti dà la completezza e la gioia.
L’ispirazione non è un momento definito, ma piuttosto il frutto di un processo creativo continuo ed intenso. Quando si dice di non avere più ispirazione significa invece che si è smarrita la strada che porta ad essa. Sono me stessa in tutte le fasi di esecuzione di un quadro, cioè presente a me stessa e nello stesso tempo totalmente libera. Questi due aspetti si ritrovano nella filosofia indiana, che paragona l’individuo genuino ad una canna al vento. La canna ha una struttura rigida ma anche un’anima vuota che permette al vento di piegarla. Credo soltanto nella pittura senza alibi, senza moda o corrente, ma come espressione individuale libera da schemi imposti dall’esterno.
E’ con la scintilla che si inizia il quadro !
Spesso nei quadri di artisti dell’Art Brut esiste la ripetitività del soggetto, come file, righe, allineamenti. E’ forse un modo di cullarsi, di ritrovare fiducia in se come un dondolarsi. I bambini amano farsi ripetere all’infinito le loro fiabe preferite. Anch’io disegno personaggi come una scrittura infinita. Spesso mi sono chiesta da dove venivano i soggetti dei miei quadri. All’inizio pensavo che fossero solo i contenitori dei miei colori, prediligendo il colore alla forma. Ma il colore viene scelto a seconda dell’armonia che uno sente al suo interno, mentre le forme sono molto più ancestrali e collegate a problematiche profonde e integrate. I miei temi preferiti, sono i personaggi, file interminabili (la scrittura infinita, titolo di un articolo scritto sulla mia pittura), di personaggi disegnati velocemente, che non hanno niente di logico né nell’abbigliamento, né nelle posture. Alcuni sembrano etnici, altri rinascimentali, guerrieri di tutte le epoche, dame medievali e donne moderne, tutti insieme alla rinfusa, un pò come è la mia mente, confusa, veloce, caotica.
Ho dipinto:
– una serie importante di dipinti di guerrieri, file di soldati, assedi, battaglie, cortei militari, combattimenti, dove la forza e il ritmo prevalgono. Forse erano lì per aiutarmi a combattere momenti difficili come compagni di viaggio.
-Tanti quadri astratti caratterizzati dall’essenzialità e purezza del tratto.
-Una serie di quadri anche molto intimi, molto sentiti, dipinti spesso nella fase depressiva, più carichi di significato profondo.
– Tanti disegni molto spontanei su carta da pane.
Quando dipingo, spesso non ho un’idea precisa di quello che farò. Il caso mi guida e inventa forme sempre nuove che rendono gli altri capaci di stupirsi. Nel caso però esistono delle leggi senza le quali sarebbe il caos. Pensate a quel gioco che si fa in gruppo dove ciascuno a sua volta scrive una parola, senza sapere ciò che ha scritto quello che lo precede. Esistono però sempre un soggetto, un aggettivo un verbo e un complemento, quindi leggi di base. Mi colloco negli artisti dell’Art Brut, perché autodidatta, perché persona sensibile, creativa, spontanea e genuina, dalla produzione sfrenata spinta dall’urgenza di esprimermi. Il mio interesse per l’Art Brut comprende anche altre arti, come la scrittura e la musica Brut. E’ un concetto ampio che racchiude tutte le espressioni artistiche. Mio considero come un’artista dell’Art Brut, anche se prendo psicofarmaci per il mio disturbo bipolare e malgrado le influenze di tanti artisti famosi sulla mia pittura. Sono lo slancio, la genuinità, la necessità urgente di dipingere, il fatto di essere un’autodidatta e di fare l’equilibrista con i miei alti e bassi, che mi possono fare paragonare ad un’artista dell’Art Brut.