ART BRUT, ARTE E FOLLIA
Definire l’Art Brut è un’impresa perché per antonomasia non ha confini. In due semplici parole l’Art Brut è l’arte non tradizionale, di persone comuni, emarginate, spesso malati di mente, prigionieri, liberi però nella loro espressione pittorica, senza nessuna formazione accademica. Sono autodidatti distaccati dalle loro opere. Per loro l’arte è una necessità di sopravvivenza mentale. Sono artisti che sono passati dai loro disegni da bambini alle loro opere senza accorgersene, come se tra sei e sessant’anni ci fosse soltanto un brutto momento da passare. Il termine “Art Brut” qualifica un insieme di produzioni. Disegni, dipinti, scritti in prosa e in poesia, ma anche sculture, assemblaggi, ricami, tappezzerie o architetture, realizzate spesso con materiali di fortuna ed oggetti di uso quotidiano. Non è né un movimento né uno stile, è una pura invenzione individuale. Il termine “arte”, come per altro quello di “artista”, non convengono a quelli che non hanno imparato nulla e hanno tirato fuori tutto da loro stessi, senza un modello. Preferiscono definirsi “creatori” perché attribuiscono a forze esterne il potere di cui sono i depositari. L’Art Brut è un arte non primitiva ma elementare, fatta di tecniche sommarie e rudimentali. E’ un’arte modesta, povera non per scelta ma per necessità.
Jean Dubuffet, artista originale che per primo ha coniato il termine di Art Brut, diceva “il n’y a pas plus d’art des fous qu’il n’y a d’art des malades du genou” (non ci sono più malati di mente che malati del ginocchio). Questo fa ben capire che la pazzia è da considerarsi una malattia alla pari di tutte le altre e che non è nemmeno atta ad essere definita.
La nostra società da millenni elegge e sviluppa certe risorse psichiche (pensiero astratto, rendimento tecnico), a discapito di altre facoltà che sono così inibite. In altre culture accade l’inverso. Gli artisti che riescono ad evitare il sistema culturale di sviluppo selettivo, riescono nello stesso modo a preservare e evidenziare qualità selvagge che solo ora cominciamo ad apprezzare. Perchè dobbiamo qualificare come pazzo ed internare in una struttura specializzata un adulto capace di eseguire disegni, sculture e altre opere di creatività, ma incapace di leggere, scrivere o contare, mentre un individuo dotato inversamente per l’astrazione concettuale ma totalmente negato per l’espressione plastica, può sperare in una brillante carriera?
Arte e follia, un percorso da scandagliare per cogliere gli aspetti misteriosi di un rapporto tra diversità e regolarità. Lasciatevi prendere per mano da queste persone infelici e portatrici di drammi insondabili e vi condurranno per mano dove avete voi il timore d’inoltrarvi per paura d’incontrare, dietro l’angolo buio, il vostro altro silente minaccioso (Gegenstand, l’Altro lato).
Tanti grandi pittori si sono ispirati agli artisti brut. Facendo una mostra importante di artisti malati, ospiti degli ospedali psichiatrici e accostando le opere della collezione Prinzhorn a quelle di Klee, Kokoschka, Kirchner, Nolde, Franz Marc ed altri, l’Europa nazista volle dimostrare quanto questi ultimi fossero degenerati. Il punto nodale della creazione artistica fu svelato proprio in questa mostra: la vera arte è sempre arte necessaria per il suo creatore.
L’artista dell’Art Brut elabora il mondo esterno da lui percepito che poi trasforma nuovamente in mondo esterno attraverso la sua verità e così riesce a comunicare col mondo esterno. La comunicazione con il fruitore dell’opera non è a priori coinvolta nel loro processo creativo, mentre tutte le forme d’arte finalizzate esclusivamente al successo, che abbondano oggi, perdono forza e originalità correndo il rischio di diventare ripetitive e superficiali. Si afferma per fortuna oggi una tendenza che considera il mondo spostato (verrueckt = spostato, matto in tedesco), sempre più normale e il mondo normale sempre più spostato.
L’arte ha un senso solo se è originale come lo è ogni essere umano al mondo. La nostra epoca tende ad omogeneizzare tutto, dai prodotti, alla moda, all’apparenza, al comportamento, ai discorsi fatti. Invece la ricchezza sta nella diversità, nell’originalità, nel modo estroso di proporsi e di agire. La rappresentazione perfetta della realtà è noiosa perchè inutile, solo l’idea che uno ha del mondo, della vita, di cosa fare della propria esistenza merita di essere rappresentato.
L’Art Brut non richiede quindi una definizione precisa perché non rappresenta un gruppo definito di artisti, ma è di per sé l’origine dell’arte. L’origine più remota, quella celata nella passione, nella spontaneità, nella purezza d’animo, negli slanci vitali, nei sentimenti opposti ma sinceri, schietti, che vanno diretti al cuore senza passare dal cervello. Non bisogna sapere dipingere per essere artista, l’importante è esprimersi con totale libertà accompagnata dal talento naturale. Per questo solo i folli, i bambini e i puri, ne sono capaci.
Di solito per arte s’intende una manifestazione di un Io nascosto ed espressivo, ma nell’Art Brut è intesa come gioco nel quale avere un rapporto allo stesso tempo ludico e distaccato. E’ un gioco tormentato, è un annaspare, è un drammatizzare tutto quello che lo circonda in una situazione in cui nulla è definito, in un caos di sostanze. Il campo in cui si dipinge si trasforma in campo di battaglia. Per scavare nell’essenza dell’Art Brut bisogna tornare bambini e ricordarsi il piacere e la libertà di scarabocchiare, di pasticciare, di tuffare le dita nei colori, di dare forma all’oggetto immaginato e non all’oggetto reale. Occorre ricordarsi la gioia pura di essere liberi. Per essere felici bisogna essere liberi, senza costrizioni, autorizzati ad esprimersi in modo autonomo. L’atto creativo ha il potere di stimolare una sempre più modulata e articolata presa di coscienza, di saturare gradatamente quei vuoti lasciati dalla realtà esterna prima rifiutata e temuta. In una lettera al pittore René Auberjenois, Dubuffet utilizza per la prima volta il termine di Art Brut, per designare la forma d’arte più oscura, inconscia di se stessa. Lui stesso è andato a trovare opere, di grande rilievo artistico, negli ospedali psichiatrici e in altri luoghi per marginali e visionari. Le incredibili sculture, eseguite con la midolla di pane, di Joseph Giavarini, detto il prigioniero di Basilea, sono state scoperte da lui nel ’49. L’Art Brut è l’arte più pura e spoglia di qualsiasi influenza esterna. Jean Dubuffet chiama queste opere frutto della solitudine, di pura autenticità, d’impulso creativo in cui non intervengono preoccupazioni di competizione, di applausi o promozione sociale. Sono opere febbrili e vissute intensamente dal loro autore come i disegni dei bambini. Nei dipinti in questione l’atto creativo ha il potere di stimolare una sempre più modulata e articolata presa di coscienza, di saturare gradatamente quei vuoti lasciati dalla realtà esterna prima rifiutata e temuta. Ha quindi l’importante funzione di favorire il sorgere di una nuova situazione di stabilità anche se incerta e precaria. Il brodo di coltura dell’artista dell’Art Brut è la totale libertà.
La pittura dei bambini così spontanea e fresca, pura e senza pretese, non fa parte della collezione dell’Art Brut, anche se le loro caratteristiche si ritrovano nelle opere di artisti marginali ispirati, spesso autodidatti, senza nessuna formazione accademica. A Losanna pochi sono quelli che conoscono il museo dell’Art Brut che tratta proprio di questo tipo di pittura e che sarà in gran parte l’argomento di questo saggio.
Sono stata impressionata dalla spontaneità dei dipinti raccolti in questo museo e la forza che emanano mi hanno portato a tornarci spesso. Sono nata a pochi chilometri da Losanna. E’ un edificio classico con un interno molto intimo, non è il solito museo asettico.
E’ poco illuminato e l’atmosfera che regna è misteriosa e accattivante. Le opere esposte sono soprattutto di autodidatti, di carcerati, di persone marginali, originali e di malati mentali.
L’espressione artistica del folle, con il suo potente richiamo dell’immaginario, rappresenta la voce più pura e incondizionata. E’ una voce istintiva e urlante verso il divino. E’ senz’altro il cammino più difficile e doloroso, ma è anche vero che è l’espressione più vicina a Dio. Le arti sono l’emanazione espressiva di una singolarità e al tempo stesso si connettono a una tradizione. Sono luoghi di germinazione simbolica privatissima, e allo stesso tempo inducono alla condivisione. Il genio artistico è sempre stato considerato una conquista verso il divino. Una conquista difficile che implica dolore, un cammino spesso arduo, che marca in modo indelebile le menti più sensibili. Nel film di Ingmar Bergman “come in uno specchio”, si può dire che Dio non partecipa al dolore umano, non rischiara l’esistenza individuale, al contrario, si nasconde e viene meno proprio sulla soglia del suo rivelarsi. Ma è proprio questa strada in salita che spinge l’artista a dare una soluzione o ad avvicinarsi al mistero. E’ proprio nella follia che abitano gli dei, a patto che li si sappia scorgere, animare ed evocare. L’arte trasforma il dolore psichico in segno dell’umano, in simbolo apprezzato di una soggettività nella quale ci si può rispecchiare.
Il legame tra genio e follia, tra arte e malattia, ha avuto diverse interpretazioni a seconda della nostra cultura nel tempo. Le muse autrici del delirio nei tempi antichi, la malattia produttrice di arte nell’epoca romantica, in seguito alla scoperta dell’Io, che porta al compiacimento per la propria capacità di soffrire, ne sono alcuni esempi. La malattia che porta alla creatività veniva allora in un certo modo venerata. Con le varie scoperte scientifiche in campo medico per curare malattie psichiatriche, si è riusciti a dare una descrizione più precisa del binomio genio-follia. Oggi si studia quanto la malattia possa limitare il talento artistico o invece incentivare il genio creativo.
Potrei usare termini alternativi e chiamare “diversi” i malati mentali, i folli, ma voglio invece usare appositamente termini diretti e non mascherati. Una malattia è una malattia, che essa sia fisica o mentale. L’origine è chimica o organica in tutti due i casi. Non vergogniamoci di definire “malattia mentale” questo disturbo così invalidante. Dobbiamo sradicare i pregiudizi. Non c’è impresa più ardua che tentare di abolire i pregiudizi, ci vuole solo determinazione e coraggio. Ricordiamo soprattutto che la differenza significa ricchezza e non limite. Spesso le malattie mentali erano conseguenze dell’istituzionalizzazione. I malati mentali vivevano spesso in condizioni di isolamento, di promiscuità e di miseria umana nei manicomi, tutti elementi che non facevano altro che rafforzare i sintomi della loro malattia. Prima gli ammalati erano rinchiusi, derisi, maltrattati, oggi invece dopo la chiusura dei manicomi, introdotta dalla legge 180 di Franco Basaglia, nel 1978 (molto discussa), le persone con disturbi mentali si rivolgono a psichiatri che prescrivono loro medicinali come i cardiologi fanno per i loro pazienti. Esistono poi i validissimi aiuti degli psicoterapeuti. L’organo del cervello è il più complesso del corpo umano, lasciamogli un trattamento dignitoso.
Oggi però proprio dalla scienza arriva la notizia della scoperta di un possibile legame concreto tra creatività e malattia mentale che, se verificato, potrebbe aiutarci a comprendere meglio quella che per ora resta solo una nostra convinzione su base empirica.